Il settore tessile e quello agroalimentare italiani hanno molto in comune. Sono entrambi economie portanti del nostro paese, nonché rappresentano l’anima del Made in Italy nel mondo. Allo stesso tempo, entrambi sono attualmente al centro di politiche di trasformazione a causa del loro elevato impatto dal punto di vista dei rifiuti generati in ogni fase della filiera produttiva.
I modelli di economia circolare mirano a reintrodurre scarti e i rifiuti industriali, valorizzandoli in modo da riutilizzarli nel contesto della produzione.
Secondo il Rapporto sulla Bioeconomia in Europa, i rifiuti agroalimentari della filiera Europea ammontavano a 171 kg pro-capite nel 2018, di cui il 38% a carico delle famiglie (65 kg pro-capite), il 28% attribuibile alla trasformazione industriale (con 24 milioni di tonnellate per 48 kg pro-capite) e il 20% legato al settore agricolo (34 kg pro-capite). I rifiuti della trasformazione industriale del nostro Paese ammontano a meno della metà della media europea, con 15 kg pro-capite.
Pertanto, l’adozione di un mindset legato alla sostenibilità del settore agroalimentare punta alla riduzione dello spreco alimentare, in gran parte domestico (acquisti eccessivi, alimenti mal conservati, scarto degli avanzi e scarti alimentari); dall’altra mira a ridurre e a valorizzare la quota di rifiuti organici prodotti nella lavorazione industriale (prodotti danneggiati, scarti di lavorazione, sovrapproduzione).
I rifiuti organici secondari della produzione alimentare costituiscono una grande risorsa per la produzione di biomassa e biomateriali.
L’industria della moda è uno dei settori più onerosi in termini di risorse: l’adozione del fast fashion e acquisti sempre più compulsivi, dettati anche da prezzi eccessivamente bassi e offerte continuative, sono fattori che hanno contribuito all’eccessivo sfruttamento dell’acqua, dell’anidride carbonica prodotta dalla produzione e dalle microplastiche rilasciate nell’ambiente.
Nel 2017, la Global Fashion Agenda ha calcolato l’impronta ecologica dell’industria della moda tra il 4 e il 6%, essendo responsabile del 10% delle emissioni di gas serra globali e con un consumo, nel 2015, di 79 miliardi di metri cubi d’acqua. Si stima che alla produzione tessile sia riconducibile l’utilizzo di 1900 prodotti chimici (di cui 165 considerati dall’UE gravemente pericolosi per l’ambiente e per la salute), il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua e che dal lavaggio dell’abbigliamento, specie quello sintetico, derivino 0,5 milioni di tonnellate di fibre sintetiche che ogni anno inquinano i nostri mari.
Un secondo ordine di problemi riguarda poi l’eccesso di indumenti invenduti o non più utilizzati: un cittadino europeo consuma annualmente 26 kg di indumenti, smaltendone 11, la cui maggior parte destinato alla discarica.
Le principali strategie per una moda più sostenibile puntano quindi da una parte a incentivare le aziende a produrre in maniera sostenibile e responsabile, suggerendo l’ampliamento dell’offerta di servizi di riparazione e riutilizzo. Dall’altra, si punta a implementare la consapevolezza dei consumatori rispetto ai propri acquisti e ai propri comportamenti di gestione dell’abbigliamento, incentivando un consumo critico, consapevole e responsabile, promuovendo pratiche che possano allungare il ciclo di vita dei prodotti.
Il Green New Deal Europeo e il CEAP (Circularity Economy Action Plan), hanno posto l’attenzione sulla centralità del settore tessile nelle strategie di transizione verso la sostenibilità, e il riciclo dei materiali tessili, oggi limitato globalmente intorno all’1%.
Viene inoltre incentivato l’utilizzo, all’interno dell’industria del tessile, di tutti quei materiali che provengono da diverse filiere, da quella edile a quella agroalimentare, puntando sullo sviluppo di tecnologie in grado di implementare strategie di circolarità.
In base a queste premesse, gli ultimi anni hanno visto nascere diverse interazioni tra i settori della moda e dell’agrifood, nell’ottica di ridurre e valorizzare i rifiuti derivanti dalle relative lavorazioni industriali.
Dal punto di vista internazionale, nuove fibre tessili prodotte con scarti alimentari sono nate in Giappone con quello che viene chiamato cashmere vegetale (Soyebean Protein Fiber) ricavato dai rifiuti della lavorazione della soia, e con il Craybon, dall’estrazione di chitosano dall’esoscheletro dei crostacei poi miscelato con fibre come il lino o il cotone. Negli Stati Uniti, con la fibra di mais (Corn Fiber), utilizzabile anche nell’industria edile; a Taiwan, con l’S. Cafè, una fibra nata dalla lavorazione dei fondi di caffè e con alta capacità traspirante e anti odore.
In Europa, sono stati brevettati i tessuti Piñatex, in Spagna, dalla lavorazione degli scarti industriali dell’ananas; Bananatex, brevettato in Svizzera, dalla lavorazione delle bucce di banana; Qmilk, brevettato in Germania e derivante dalla caseina ottenuta dalla lavorazione degli scarti del latte scremato.
Anche l’Italia vanta una serie di brevetti molto innovativi in questo senso, sfruttando la grande ricchezza di produzioni agricole che contraddistingue il nostro territorio da nord a sud.
Appleskin è un tessuto brevettato da Frumat e ha le sue radici a Bolzano, nel ricco distretto della mela. Viene fabbricato e lavorato a Firenze, una città legata storicamente alla lavorazione del pellame e del cuoio.
Anche l’esperienza di Orange Fiber mescola diversi know-how locali: in Sicilia, dove ha sede l’azienda, avviene l’estrazione della cellulosa dagli scarti delle arance, mentre la tessitura ha luogo nel nord Italia.
Vegea - Wine Leather è invece un’azienda fondata a Milano nel 2016 che produce pelle vegana partendo dagli scarti industriali della produzione vinicola, che nell’Italia vede primo Paese con il 18% della produzione di vino globale.
Sono davvero ampi i margini di miglioramento per promuovere la sostenibilità su più livelli, anche facendo intersecare settori che, apparentemente, non hanno molto in comune.
È importante che sia produttori sia consumatori siano informati in maniera adeguata, costante e puntuale, in modo da responsabilizzare e alimentare una coscienza ambientale che favorisca sempre di più scelte ecologiche.